Milano, 18 gennaio 2024
Care colleghe e cari colleghi,
Ci rivolgiamo a voi consapevoli del grande ritardo con cui ci muoviamo, rispetto ai massacri compiuti in Palestina ed Israele che continuano da più di 3 mesi. Molto ci siamo interrogati se fosse opportuno e necessario far sentire la nostra voce. Il campo del dibattito è colmo e vuoto al tempo stesso. Una narrazione saturata dall’emotività primaria ha impedito il pensiero e la riflessione, sospingendoci verso l’unica possibilità dello scontro fra fazioni. La logica del nemico e del capro espiatorio, della guerra fra civiltà che spazza via la vita e la possibilità di comprensione. I fatti che si stanno susseguendo in quella parte di mondo sono sconvolgenti: assalti a civili inermi nelle loro abitazioni, stupri sulle donne, bombardamenti “chirurgici” contro ospedali, ambulanze, giornalisti e istituzioni diplomatiche, la fame e la sete come strumento legittimo di guerra. I principi e le istituzioni del diritto internazionale sono stati ripetutamente e consapevolmente calpestati, strumenti vuoti davanti alla brutalità della violenza di chi la agisce. Orrori davanti a cui non possiamo rimanere indifferenti.
Fin dalla sua nascita la psicoanalisi ha avuto il senso di creare uno spazio di pensiero laddove la reazione è immediata e si è interrogata sul problema della violenza nell’individuo ma anche nelle società umane. Un’analisi sommaria del problema porta alla scotomizzazione del comportamento individuale dalle dimensioni collettive in cui si svolge. Secondo questa logica comportamenti aggressivi e violenti sono la risultante patologica di chi è portatore di malattia e disagio individuale. Una logica che porta alla deresponsabilizzazione di chi commette violenza. Durante la guerra, ad esempio, si giustificano i comportamenti in base al contesto in cui sono svolti e si slega così il gesto del singolo dalla sua persona. Se il male è ridotto ad una dimensione, la sua banalizzazione e la sua meccanicità lo renderanno replicabile con profonda inconsapevolezza e, quindi, inarrestabile. In una celebre riflessione, Freud suggerisce che solo tramite uno sforzo della volontà super egoica si possa pensare ad una società futura senza guerra e conflitti mortiferi. Un mondo in cui il conflitto non porti necessariamente all’eliminazione dell’altra parte; parte con cui dovrebbe essere invece possibile instaurare una relazione affettivamente significativa sulla base del riconoscimento di una stessa comune seppur differente umanità.
Sulla base di questi presupposti pensiamo che sia indispensabile, come comunità di analisti che operano nel mondo, far sentire la nostra voce senza soccombere né alla paura di risultare divisivi né alla rassegnazione né all’impotenza. La psicoanalisi nasce dalla volontà di pensare ciò che non è pensabile – l’inconscio – e proprio questo presupposto deve essere oggi coraggiosamente difeso ed esercitato.
Per questo motivo quindi,
- rispetto al contesto di guerra e devastazione che continua in Israele ed in Palestina, ma anche e non secondariamente rispetto al conflitto fra Russia ed Ucraina;
- rispetto alla violenza quotidiana esercitata sulle donne, sul loro corpo e sul femminile in generale;
- rispetto alla violenza sui giovani che vengono uccisi e traumatizzati, stuprati fisicamente e psichicamente assistendo a violenze inaudite: che adulti potranno essere se non potranno elaborare questi vissuti?
- rispetto ai bambini, che vivono l’indifferenza e l’inefficacia del mondo adulto nel denunciare e intervenire per fermare l’onda di violenza che distrugge la possibilità di futuro;
- rispetto alla violenza dell’emarginazione e della non accoglienza di chi fugge dal proprio paese;
- ed infine rispetto all’endemica e crescente diffusione della violenza quale unico legittimo strumento di risoluzione del conflitto, di relazione e di comunicazione
pensiamo che:
- La guerra e la sua espressione individuale, la violenza, siano un sintomo di un malessere che non è unicamente soggettivo ma che vada anzi letto criticamente e riflessivamente nel suo contesto storico, politico e collettivo. Solo tramite il riconoscimento dell’altro e la sua pensabilità è possibile sostare nei conflitti senza che questi degenerino in pratiche di disumanizzazione e annientamento della controparte.
- La psicoanalisi, considerata la sua storia e le basi epistemologiche su cui poggia, debba aiutare la società a pensare la guerra e la violenza. Se molto è stato fatto ed ancora viene fatto nei setting individuali della cura è altresì necessario pensare ad una cura della società. I sintomi con cui oggi ci confrontiamo impongono un’attenzione che, se non considerata per tempo, degenererà in allarme ed urgenza. Sintomi più gravi che andranno trattati con strumenti meno efficaci.
- Prendere posizione anche rischiando di essere impopolari e scomodi è un passaggio inevitabile ed essenziale all’interno di un più ampio processo di lavoro sul conflitto. Considerare il contesto e la sua analisi, ricordarne limiti e le regole condivise, criticare i comportamenti e la loro brutalità non significa rifiutare la relazione ed un confronto critico con chi li commette. Limiti e regole condivise devono essere riaffermate affinché si possa provare a ricostruire un contenitore sufficientemente saldo e funzionale in cui potersi riconoscere insieme ma differenti.
- Solo riconoscendo guerra, violenza ed aggressività come aspetti intrinseci alla soggettività umana sarà possibile evitare il gioco di pericolose proiezioni e identificazioni che la dimensione inconscia inevitabilmente produce. La non pensabilità dell’altro come essere umano vitale è ciò che porta all’eliminazione e all’agito brutale come soluzione del conflitto. Paradossalmente, affermando e pensando di poter porre fine al male in nome della nostra superiorità morale, etica e personale diventiamo così simili a ciò che ci perturba e che temiamo fino a non poterci più distinguere da esso.
Ci uniamo quindi a chi chiede un’immediata cessazione delle ostilità e la liberazione di tutti gli ostaggi. Sarà nostra cura fare quanto possibile per coltivare momenti di dialogo e di confronto su questi temi, con fiduciosa convinzione che se un mondo senza guerra non è forse possibile sia quanto meno possibile pensare ad un futuro diverso, complesso ed ancora abitabile. Come psicoanalisti ci impegniamo a lavorare all’elaborazione del lutto e dei traumi che violenza e guerra producono e a coltivare pratiche che favoriscano la fioritura di un atteggiamento più critico, riflessivo e consapevole davanti alla catastrofe e all’orrore che la fine del mondo, per la violenza e la distruzione dilagante che implica, porta con sé.
Gabriele Tapella | Nicolò Doveri | Laura Caiti | Cristina Trivelli |
Paola Zucca | Enrico Ferrari | Francesca Mapelli | Barbara Tonin |
Susanna Chiesa | Silvana Nicolosi | Denis Gherlini | Cristina Bianchi |
Caterina Viganò | Matteo Biaggini | Marina Panaro | Massimiliano Sculco |
Francesco Marrone | Carla Giubbolini | Fabio Sanna | Katia Luccarini |
Francesca Vavassori | Francesco Bisoffi | Grazia Mazzola | Silvia Celiberti |
Betti Franciosi | Marco Goglio | Raffaele Toson | Rossella Andreoli |
Andrea Pendezzini | Wilma Scategni | Chiara Cattaneo | Monica Ceccarelli |
Renato Cattaneo | Andrea Scalabrini | Cosimo Sgobba | Giacomo Stefanoni |
Laura Bottari | Stefano Re | Laura Carla Ortolani | Silvia Panzeri |
Silvia Ferretti | Simona Gazzotti | Marina Fiore | Marilena Cara |
Valeria Marino | Francesca Tagliavia | Emilio Bolla | Claudio Tacchini |
Giulia Vistalli | Alessandra Colleoni | Ilaria De Gaspari | Federica Ariani |
Giorgio Cavallari | Guido Federici Steiner | Chiara Rovera | Giovanni Ciniselli |
Mauro Bozzola | Erica Gariazzo | Lucia Favilli | Marialuisa Donati |
Doretta Stevanin | Mariagrazia Movalli | Adonella Aletti | Chiara Ripamonti |
Patrizia Conti | Martina Fanghella | Francesca Delucchi | Elena Greco |
Paola Lanzi | Roberta Razzini | Paola Terrile | Daniele Mazzotti |
Elisa Panzetti | Corrado Guglieri | M. Maddalena Pessina | Mara Forghieri |
Milena Porcari |